Molto tempo fa, fratello amabilissimo, avendoti conosciuto a Costantinopoli,
quando gli interessi della sede apostolica mi trattenevano in quella città in cui tu eri giunto a perorare
la causa della fede dei Visigoti, a viva voce ti confidai tutto ciò che pesava sul mio animo.
Troppo a lungo io differii la grazia della conversione, e anche dopo il desiderio ispiratomi dal cielo, preferii conservare
l’abito secolare. Fin d’allora l’amore delle cose eterne (de aeternitatis amore) mi spingeva verso una scelta precisa,
ma le mie radicate abitudini m’impedivano di cambiare maniera di vivere (exteriorem cultum). Benchè la mi
intenzione ormai fosse quella di servire il mondo presente solo esteriormente, la sollecitudine per questo medesimo
mondo a poco a poco fece crescere in me un’infinità di pensieri contrari al mio proposito e tali da
irretirmi non più soltanto esteriormente, ma, ciò che era più grave, con la mente.
Finchè, liberandomi finalmente di tutti questi impedimenti, guadagnai il porto del monastero,
e avendo lasciati per sempre – come invano allora credetti – i pensieri del mondo, nudo, scampai al
naufragio di questa vita. Ma come spesso capita quando si scatena la tempesta, che le onde strappino
via una nave male ormeggiata anche dalla baia più sicura, così bruscamente, col pretesto dell’ordine ecclesiastico,
mi ritrovai nell’alto mare degli affari temporali e soltanto allora, dopo averla perduta, scoprii la pace del monastero
che non seppi difendere con sufficiente energia quando era il momento di tenerla stretta.
Per indurmi ad accettare il ministero del santo altare si fece ricorso alla virtù di obbedienza
ed io accettai nella convinzione di servir meglio la Chiesa; adesso però, se ciò non fosse colpevole,
mi sottrarrei ad esso con la fuga. Più tardi, contro la mia volontà e nonostante la mia resistenza, mentre gi&agrve
sentivo il peso del ministero dell’altare, mi è stato imposto anche il fardello della cura pastorale.
Questo adesso lo sopporto tanto più faticosamente in quanto, non sentendomi all’altezza del compito,
mi manca anche il respiro che viene dalla consolazione della fiducia. In questi tempi, poi, funestati da mali crescenti
che annunciano ormai vicina la fine del mondo, noi, che ci si crede tutti intenti a coltivare l’interiorità e la spiritualità
(interius misteriis deservire), siamo assorbiti dagli impegni esteriori. Per fortuna, allorchè io accedevo al ministero
dell’altare (ministerium altaris), questo è avvenuto senza che me ne rendessi conto, per consentirmi, ricevendo il
peso dell’ordine sacro, di montare più liberamente la guardia in un palazzo terrestre, dove appunto mi seguirono
molti miei fratelli del monastero, a me legati da un vincolo di amore fraterno (germana vincti caritate). Ritengo che ciò
sia avvenuto per divina disposizione, perchè, mediante il loro continuo esempio, io rimanessi fissato da un’ancora al
lido tranquillo dell’orazione (ad orazioni placidum litus), allorchè venivo continuamente sballottato dagli
affari del mondo. Nella comunità formata con loro, come nell’ansa di un porto ben sicuro, io mi
rifugiavo lontano dalle agitazioni e distrazioni terrene; e sebbene quel servizio, strappandomi dal monastero
con la spada del suo impegno, avesse estinto in me la vita pacifica d’un tempo, tuttavia in mezzo ai miei fratelli,
grazie alla quotidiana lettura e meditazione della parola di Dio, ero animato dallo spirito di compunzione
(inter eos tamen per studiosae lectionis alloquium, cotidianae me aspiratio compuntionis animabat)
S. Gregorio Magno, Commento Morale a Giobbe, I/1, Roma 1992, p 81-83